E finalmente iniziamo a navigare a vista. Nel senso: finalmente ci avviciniamo a concetti che sono ormai patrimonio comune sul Giappone, talmente comune che li puoi vedere colare dalle labbra di persone che di Giappone hanno un’esperienza di pochi giorni, o magari anche nessuna. Magari li hanno sentiti da qualcuno, magari no. Come per un occidentale Jesus bleibet meine Freude. Non potrai mai risalire a quando l’hai canticchiata la prima volta. È lì, radicata dentro di te, e basta.
Ebbene, che cosa si sa per certo del Giappone? Del suo consociativismo, del bisogno di fare gruppo da parte dei giapponesi, della capacità di sacrificare al gruppo tutto o più o meno tutto. Chi l’abbia teorizzato per primo è difficile da dire, più facile indicare chi ha consolidato definitivamente il concetto, l’autrice dello scritto che ha lasciato un segno indelebile nell’immaginario di chi guarda e ha guardato al Giappone in epoche recenti: Nakane Chie 中根千枝 e il suo Tate shakai no ningen kankei タテ社会の人間関係 (Relazioni umane in una società “verticale”), meglio conosciuto attraverso la sua celeberrima traduzione inglese di The Japanese Society (1967).