
Ginnastica a Manzanar, Sierra Nevada. Sullo sfondo, i monti Williamson
Mentre ero in tutt’altre letture affaccendato (Inoue Hisashi 井上ひさし, “Lezioni di giapponese” 日本語教室, Shinchosha, 2011) mi sono imbattuto in alcuni dati che riguardavano la deportazione di giapponesi – naturalizzati americani – nei campi di concentramento in seguito all’attacco di Pearl Harbour, di cui si era già trattato.

Frutta e verdura… americane
“(…) le loro attività commerciali e possedimenti liquidati per pochi spiccioli, spesso da profittatori senza scrupoli“. E magari il lettore pensa: e chissà che potevano mai possedere dei giapponesi emigrati in terra straniera… e invece gratta gratta pare che nel 1941 i giapponesi controllassero il 60% della distribuzione in tutta la California. Non solo: il 65% delle lavanderie (vecchio cliché che perseguita le minoranze di immigrati orientali e che forse tanto cliché non era). O ancora il 70% delle coltivazioni di verdure, in uno stato a produzione prevalentemente agricola, non dimentichiamolo. I giapponesi si erano adattati cioè ad acquistare i terreni meno appetibili, come quelli sotto le linee dell’alta tensione, rischiosi ma economici, si erano messi di buzzo buono e avevano creato qualcosa di serio.
“Fu loro consentito di prendere solo quello che potevano portare con sé“. Quel che gli venne consentito di portare con sé, nei fatti, fu quanto riusciva a entrare in una scatola di 80x80cm.

Richard Kobayashi, internato a Manzanar.
Già che ci sono, concludo con un altro pezzo del libro di cui sopra, laddove dice (p. 117, traduco a braccio): “Per concludere, vi vorrei parlare di un saggio di una professoressa di sociologia dell’università di Boston, Mary White: “L’America è un buon Paese?”. (…)
– L’America è un buon Paese?
“Sì” dice la White, ma poi aggiunge: “se lasciamo da parte la schiavitù, l’oppressione delle popolazione indigene, l’internamento degli emigranti giapponesi, i bombardamenti indiscriminati sui civili, lo sgancio di bombe atomiche, la guerra del Vietnam”. Quasi a volerci fare un piacere, la stessa poi scrive anche:

Dal San Francisco Chronicle, 2 aprile 1905
– Il Giappone è un buon Paese?
E anche lì dice “sì, è un Paese meraviglioso”, per poi aggiungere un altro “ma”: “tralasciando la colonizzazione di Taiwan e della penisola coreana, la creazione dello stato fantoccio del Manchukuo, e poi la discriminazione verso Ainu e Okinawa, e quella degli strati abietti della società (i buraku 部落 ndr), per poi passare all’oppressione dei residenti di origine nord e sud coreana, il problema delle “donne di conforto”, o il massacro di Nanchino”.
Un Paese perfetto non esiste. Prima o poi, da qualche parte, commetterà degli errori. Per coloro che si accorgono dell’errore e soffrendo cercano di superarlo con le proprie forze, esiste un futuro. Possibilità negata invece a coloro che continuano a nasconderlo, quell’errore. In altre parole, i cittadini degli altri paesi vedono questi loro simili che tra mille sofferenze cercano di andare avanti, e a tale vista si commuovono e sentono nascere un senso di fiducia. Al contrario, coloro che affermano che il proprio Paese ha compiuto solo azioni positive, o che all’epoca non c’era altra scelta, ebbene possono anche sembrare dei patrioti a prima vista, ma per la loro Patria non esiste un futuro. Perché negli altri paesi nessuno si fiderà di loro.”

Rachel Karumi, ritratto
(foto di Ansel Adams, tratte da qua qua e qua. Qui un sito di approfondimento molto ricco, e bilingue)
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