Il giapponese della tavola: dalle mense scolastiche a Fukushima


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La parola corrispondente al nostro “buon appetito” nella lingua giapponese è “itadakimasu” (いただきます), letteralmente “ricevo [questo cibo]”. In generale,  itadaku è la forma cortese  e formale di “morau”: Entrambe significano “ricevere”, ma la prima è utilizzata per enfatizzare l’importanza della persona che dà l’oggetto rispetto a chi lo riceve.

La figura è tratta  dal volantino della mensa degli alunni elementari in Giappone. Nella spiegazione per i giovani studenti è posto l’accento non solo su chi ha preparato il pasto, ma sul fatto che lo si riceve da  animali e vegetali che – volenti o nolenti – hanno dato la loro vita per nutrirci.

Il concetto di rispetto non si limita agli animali utilizzati in cucina, ma anche a quelli negli esperimenti scientifici: ad esempio una volta l’anno negli istituti di ricerca viene effettuata una cerimonia in suffragio delle cavie utilizzate per sviluppare vaccini e cure per l’uomo.

Al termine del pasto, “gochisousama”, 御馳走様, “grazie a coloro che sono andati in giro e si sono dati da fare per procurare gli ingredienti per il cibo  [e prepararlo].

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Nella regione di Fukushima, dopo l’incidente alla centrale nucleare nel marzo 2011, i controlli hanno dovuto includere le misure di radiazione. La  legge impone  100 Bq/kg (da confrontare con i 125Bq/kg delle banane),  con controlli sia alla produzione che nelle scuole. In molte mense viene quindi effettuata  l’analisi spettroscopica del cibo per verificare che non ci sia cesio radioattivo. Gli addetti della mensa hanno imparato in poco tempo ad utilizzare spettrometri gamma con abilità e precisione da far invidia a molti ricercatori. In questi casi i due termini giapponesi hanno un significato più profondo, rivolto ad allevatori e coltivatori che cercano di far riprendere l’economia e le filiere produttive nella regione martoriata non solo dalla radiazione ma soprattutto dalla paura di essa.

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