Il primo bianco


(dodicesima puntata) di Michele Pinin

                                                               con lacrime e lamenti non si cura il mal di denti

E’ come il bowling. Le bocce colorate se lanciate con la giusta potenza assumono una velocità perfetta e colpito il primo birillo degli altri ne fanno una strage. Alla fine degli anni 80′ sull’arcipelago il bowling andava ancora forte. Dal tardo pomeriggio a notte fonda a giocarci erano prevalentemente i maschi. Nel fine settimana, qualcuno di loro portava anche la fidanzata. Il bowling è un gioco, un passatempo, prettamente maschio. Non solo perché si gioca in mezzo a piramidi di posacenere, lattine di birre vuote, vassoi di ghiaccio e whisky, mani sulla patta dei pantaloni e dita nel naso. Perché ritrae cosa accade nella testa di un maschio di fronte all’impatto con il dolore. Un singolo avvenimento che lo colpisce con precisione e ne causa la completa disfatta. Prendete Okada. Impalato e rigido davanti alla scrivania vuota di Hirose. Non ci sono più le pile di giornali, non c’è più il MacBook Air, non ci sono le cartine argentate delle gomme da masticare. Apre i cassetti. Sono vuoti. Dall’attaccapanni mancano l’impermeabile e l’ombrello. Il suo compare è sparito da una settimana, proprio quella che lui aveva passato fra Takadanoba e Kichijoji sulle tracce di Elemetti. Gli aveva telefonato un paio di volte per invitarlo a farsi una bevuta da Sennari il suo kuschiage preferito. Kichijoji era lontana dal giornale e dalle loro case, sarebbe stata l’occasione buona – dopo tanto tempo – per prendere due ragazzine, rifugiarsi in un love hotel e smaltire il fritto degli spiedini. Hirose aveva risposto dicendo: no, non posso, quel tipo di no, non posso che voleva dire magari potessi. Okada aveva abbozzato, sapeva che il compare doveva prendere una decisione importante per il destino della sua carriera.
Questa mattina entrato in redazione, Morita ha infilato le dita nella boccia gialla e presa la mira l’ha lanciata verso Okada, colpendolo: Hirose ha accettato la proposta ora sta viaggiando verso il Shinshu.
– Allora come mai non siamo andati a fare un brindisi tutti insieme o una birra almeno, qui in redazione.
– C’è poco da festeggiare con tutto il lavoro che lo aspetta.
– Come, questa missione è anche una promozione, al ritorno sarà lui a dirigere la cronaca, no?
– Allora secondo te sono diventato troppo vecchio per la cronaca? Non vado più bene come caporedattore?
Okada si chiede, volgarmente, che cazzo abbia mai da scherzare il capo stamattina. Infila le mani nelle tasche della giacca tira fuori accendino e sigarette e ne offre una a Morita. Gli fanno schifo quelle sigarette, sono al mentolo, però una la prende. Tira un paio di boccate, prende la seconda boccia, quella verde e di controvoglia la lancia: Hirose è rimasto solo, la moglie ha preso i bambini, gli ha chiesto il divorzio. E’ andata via per sempre.
– Che cosa?
Morita non gli risponde neanche, si alza prende la borsa e prima di raggiungere la porta gli posa una mano sulla spalla destra e dice: non stare a pensarci troppo, non perdere tempo, adesso la storia del primo bianco la porti avanti tu. Ricordati che i lettori aspettano il prossimo pezzo.
– E Hirose?
Gli risponde la porta che sbatte e si chiude dietro al capo. Prende il cellulare e digita il numero del compare, il primo fra i preferiti. La voce meccanica dall’altra parte della linea infila le dita nella boccia nera, la lascia andare e dice: questo numero di telefono al momento non è utilizzabile vi preghiamo di controllare e provare a richiamare più tardi.
Come? Cambi il numero di telefono e non me lo dici? La gola secca gli fa venire voglia di leccare una donna fra le gambe fino a dissetarsi, una qualsiasi fra le colleghe della redazione. Allo stesso tempo vorrebbe alzarsi, prendere a calci tutto quello che ha intorno. Non muove un muscolo, ha ancora il cellulare nella mano destra e la bocca aperta. Lo sa cosa sta succedendo. Hirose è fuggito in montagna, ha accettato quell’incarico, non per la promozione, no, neanche per il futuro dei figli, no. Si vergognava con il mondo e anche con lui. E’ questo il motivo della fuga.
La verità era che quella storia del bianco volato sotto il treno gli stava mangiando la testa. Davanti a qualsiasi difficoltà, a ogni decisione da prendere Hirose finiva per chiedersi cosa avrebbe fatto Elemetti al suo posto. Prima sembrava quasi uno scherzo. Anche la sera dopo il lavoro mentre bevevano il compare continuava a farsi quella domanda.
– Che te ne importa di cosa avrebbe pensato il bianco? Gli chiedeva Okada e tutti due ridevano e ordinavano un altro bicchiere, quello della staffa, così lunga la staffa, da non raggiungere mai il cavallo.
Esce dall’ufficio e punta verso la scrivania di Tomita. Al suo posto c’è una donna delle pulizie, deve essere nuova, si muove con lentezza, senza confidenza con le sedie, i PC, gli armadi. E’ un donnone grosso e mal proporzionato sembra un vecchio lottatore di sumo travestito che si guadagna da vivere facendo le pulizie in un locale notturno.
– Tomita san, dov’è?
– Mi scusi?
Lascia la donna cannone senza risposta e si avvicina alla finestra dietro alla scrivania. Guarda il panorama dei grattacieli in quel giorno di sole, il primo dopo una serie infinita di tifoni, il primo giorno che certifica ufficialmente l’arrivo dell’autunno. Non può chiedere il numero a Mayuko, la moglie di Hirose, e non lo può chiedere a Morita perché se non gliel’ha dato è stato il compare a vietarlo. C’è solo una persona che forse, anzi sicuramente, lo conosce. L’ultima persona al mondo che vorrebbe incontrare. Mentre lui andava su e giù dal centro alla periferia, da Otemachi a Kichijoji a raccogliere informazioni sull’insegnante di lingua italiana Hirose scriveva i pezzi seduto in redazione e più di una volta aveva incontrato la moglie di Elemetti. Non più a casa del bianco, in centro, non lontano dalla redazione in uno di quei caffè alternativi, minimalisti con sgabelli e tavoli di stile diverso per ogni posto a sedere. Elegante, lo definivano in molti quel bar, Okada da parte sua volgarmente lo chiamava un posto di merda. Di mangiare dei panini minuscoli torturati da stuzzicadenti e bandierine appollaiato come un pappagallo in gabbia, Hirose pero’ non si vergognava.
Ecco, a proposito della vergogna, sono costretto a interrompere il racconto e provare a riflettere. Di cosa ci vergogniamo? Quando, in che occasioni? Vergognarsi di andare a letto con la moglie del nostro migliore amico, vergogna di non avere i gadget del momento, di una macchia di salsa di soia sulla cravatta? Hirose non provava solo questo tipo di vergogna. Era un altro il sentimento che lo aveva portato a trovare rifugio in Shinshu, nel cuore dell’arcipelago, un cuore fatto di montagne tagliate con l’accetta, irte, ricoperte di foreste inospitali con cicatrici al posto di sentieri. La vergogna che provava nasceva dalla consapevolezza della gravità delle sue azioni. Questo è il tipo di vergogna che serpeggia nelle foreste giapponesi. Una penosa consapevolezza rispetto al proprio senso morale e non solo rispetto al giudizio degli altri. Vergognarsi di se stessi con se stessi. Guardarsi allo specchio e piangere per non avere il coraggio di prendersi a schiaffi. Una vergogna che solo in un secondo momento si unisce al disonore e al discredito davanti agli altri. Questa era la vergogna che alle cinque del mattino lo frustava, gli impediva di stare al caldo del futon gettandolo fuori nella foresta e affrontare la fine del buio, le prime luci dell’alba. Camminava con la torcia in mano e si chiedeva cosa ne avesse pensato Franco di quell’arcipelago fatto di montagne invece che di lunghe spiagge di arena e madreperla. Forse si era chiesto: che ci fanno queste montagne aguzze, dispettose, poco accoglienti in mezzo all’Oceano Pacifico? La geografia dell’arcipelago dimostrava che gli dei avevano voluto mettere alla prova i giapponesi abbandonandoli in mano a una natura estrema e tutta uguale. Tolto l’Hokkaido e gli atolli di Okinawa, il resto del paese è identico, di una monotonia sorprendente. Montagne irsute e poco alte, coperte da alberi con un tronco sottile e un fogliame denso in progressivo dislivello a strapiombo sul mare. Montagne e colline separate da campi piccoli e asfittici dove produrre il minimo di riso e grano saraceno necessari alla sopravvivenza. Una popolazione di montanari che si era ritrovata in mezzo al mare. L’unico arcipelago al mondo dove la gente non va in spiaggia e se ci va non vuole abbronzarsi. Chi si abbronza viene visto male quasi fosse un teppista del senso estetico comune.
Franco cosa pensava di questi montanari travestiti da pescatori? Il fatto stesso di mangiare il pesce crudo non era forse una prova dell’insofferenza nei confronti del mare che li circondava? Che cosa era successo al primo giapponese che aveva pescato e invece di cucinarlo il pesce lo aveva tagliato a fettine e mangiato ancora vivo? Aveva avuto fretta? Era stato un gesto d’impazienza? Come avrebbe risposto Elemetti a questa domanda?
Okada è in piedi, davanti al campanello, ha l’indice puntato, si guarda intorno. Sente di essere osservato, ma non vede nessuno. Si gira ancor una volta a destra, poi a sinistra, si guarda dietro le spalle. Poi di nuovo a sinistra. Proprio quando si fa coraggio e suona, a pochi metri di distanza dietro una piccola staccionata appare Eddy. Il cane di Elemetti. Non si muove e non abbia, lo scruta come un metal detector con i bagagli. Quando sta per voltarsi e andare via, dal citofono esce la voce della donna:
– Chi è?
– Sono Okada, del Corriere di Tokyo.
– Signor Okada buongiorno, mi dispiace sto per uscire.
– Volevo solo disturbarla un attimo.
– Che sfortuna, ho davvero fretta sono molto in ritardo, cosa c’è?
Eddy si è seduto sulle zampe posteriori, lo guarda mentre gira l’orecchio sinistro per seguire allo stesso tempo cosa succede in casa. Per un attimo si guardano negli occhi. Il cane sembra dirgli, non fare troppi giri di parole, chiediglielo. Okada guarda in alto e nota il cielo terso, con poche nuvole sottili all’orizzonte. Finalmente un giorno, senza afa e umidità. Un giorno di sole.
– Vorrei il nuovo numero di telefono di Hirose.
– Ha una penna?

つづく

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