Il primo bianco


(undicesima puntata) di Michele Pinin

                                                                                                    taccio o setaccio

Fra le cose più sciocche al mondo ci sono le sorprese. Sono le uniche a farci felici, commuovere o ricorrere a rimedi estremi. Non mi ricordo più su quale volo ho letto una noiosa – quanto precisa statistica – rivelare che la maggior parte delle sorprese che facciamo, anche quelle accolte con un grande sorriso, un abbraccio o addirittura un pompino, non piacciono poi così tanto. Facciamo i regali perché in cambio vogliamo di più. I giapponesi lo sanno, a un regalo bisogna rispondere con due. Dobbiamo raddoppiare per esprimere la nostra gratitudine. E allora ogni regalo è un problema. Ancora peggio una sorpresa. Ci si sente in obbligo di contraccambiare. Dobbiamo sforzarci per far capire che abbiamo apprezzato il regalo e decifrato il sentimento che ha fatto scegliere quella sorpresa. Per questo è più facile reagire alle cattive sorprese, la reazione è prevedibile, logica: ci arrabbiamo. Prendiamo qualcuno a male parole o gli fratturiamo due costole. È meglio arrabbiarsi, non dobbiamo sforzarci e pensare a cosa dire per comunicare chiaramente la nostra gratitudine. Non basta quella semplice parola che dovrebbe esprimere un sentimento autentico – grazie – bisogna aggiungerne altre, troppe. Quando poi qualcuno ti regala la sua vita e tu la sprechi, cosa succede?
Era da un po’ che la redazione cercava un giornalista da prendere e mandare in giro per il paese. Qua e là senza nessuna considerazione delle stagioni, necessità personali, giorni feriali e festivi. Uno da mettere alla prova. Lo avrebbero preso e catapultato dove avrebbero voluto. Sembra un modo di dire, invece funziona così: Morita e il Direttore notano che è tempo di trovare un nuovo dirigente, uno che conosca il mestiere e lo sappia insegnare. Uno che si faccia il paese in lungo e in largo e al ritorno presenti, detto volgarmente, una proposta di ristrutturazione delle attività del giornale sul territorio. A disposizione della redazione 24 su 24, un soldato.
Morita lo aveva convocato in ufficio e mentre guardava il monitor del computer e non lui, gli aveva fatto una semplice domanda: te la senti?
Hirose deve scegliere e davanti ha due direzioni. Destra o sinistra. Si guarda le scarpe. Mayuko, qualche giorno fa ha trovato delle calze a un prezzo più conveniente. Sono anche di marca, aveva aggiunto. Lui adesso i piedi non li sente più. Il sangue, dopo pranzo, aveva deciso di cambiare strategia, di abbandonare la pianta e le dita e ritirarsi nelle caviglie. Ha a disposizione due scelte come le due calze. Sudate, nuove, ma già lise, da buttare via. Rimanere a Otemachi e mettere fine alla carriera o rassegnarsi a vivere come un venditore di aspirapolvere per qualche anno. Vorrebbe togliersi le scarpe e chiedere aiuto alle ciabatte. Ancora meglio ai piedi nudi, sarebbe forse più lucido, suderebbe meno. Morita inizia a scrivere e continua a non guardarlo.
– Per quanti anni? –
– Per quanti ne dico io –
Significava almeno due. È davanti alla scrivania, con le mani congiunte, non sa cosa rispondere, impreparato come gli studenti più promettenti che finiscono per essere bocciati, quelli che confondono l’intelligenza con la preparazione. Lo sapevano tutti in redazione che era uno dei candidati alla nuova nomina. Ha avuto mesi per pensarci, per parlarne con Mayuko e prendere una decisione. Ne hanno discusso tante volte a cena, finalmente loro due soli. Mentre mangiavano, era di solito lei che per prima tirava fuori la questione e chiedeva: allora cosa hai deciso? Lui si lanciava in una riflessione, cercando di considerare tutti gli aspetti di quello che avrebbe potuto rivelarsi un grande cambiamento per loro due. Lei ascoltava attenta, con in cuore il terrore che alla fine della riflessione ci fosse sempre quella frase: tanto non sceglieranno me. Quell’affermazione, la frase con cui Hirose concludeva ogni volta il ragionamento, gli evitava di prendere una decisione mentre gli permetteva di assaggiare la zuppa di miso, ormai non più bollente. Mayuko usava quella pausa per fare una scappata nella camera dei bambini e controllare la temperatura, l’acqua, le lenzuola. Lui, posata la scodella, tornava in cucina a riscaldare la verdura. Fiori di colza in padella, un regalo di suo cugino, biologici, roba che in passato si mangiava in primavera; dove erano emigrate le stagioni? Quando sono pronti dal forno tira fuori il pesce.
– Buono. Ottimo. Tu avresti dovuto fare il cuoco.
Lo ripeteva spesso, e lo pensava davvero sua moglie. Lui avrebbe dovuto fare il cuoco. Quello del giornalista le sembrava un lavoro senza fantasia rispetto al cuoco: anzi, lo chef. A dirla tutta pensava che i quotidiani, quelli di carta, tutti i quotidiani del mondo fossero inutili. Non le interessavano, non li leggeva. Tanto non le piaceva la carta del giornale, quanto adorava il contatto delle dita con il monitor del cellulare o del tablet. Le piaceva il funzionamento delle cose. Oggetti che funzionano mettendo a proprio agio chi li usa. Il giornale invece è destinato a essere in ritardo perpetuo sulle notizie, sporca le mani e non serve neanche a portare il pesce. Un oggetto che non funziona più. Lei adora Steve Jobs – aveva messo anche il poster nella camera dei bambini sperando che diventassero come lui – perché quel californiano aveva dedicato l’esistenza a una sola parola. La sua parola preferita. La parola che Mayuko in questo mondo e Steve nell’altro avevano in comune era funzione. Un oggetto funzionante, in armonia con chi lo usa. Senza farci perdere la pazienza, senza provocare stizza, al contrario, ci invita a trovare un compromesso fra lui e noi. Cambiare i gesti per l’oggetto che si ha in mano, il contatto con le cose e quindi il nostro modo di pensarle. Oggetti che funzionano obbligandoci a pensare, per esempio, come usare in maniera nuova il pollice e il resto della mano. Sì, lo sapeva passava per una fanatica, gli amici la prendevano in giro; quello che molti trascuravano – pensava – è che il funzionamento delle cose ci regala il tempo. Tutto quello che vogliamo è il tempo, no? Sono gli oggetti che decidono quanto tempo farci sprecare perché decidono se funzionare o meno. Il telefono, la macchina, il treno, il computer. E lo stesso vale per i soggetti, noi. Se ognuno svolge le proprie funzioni, fa quello che deve fare, stiamo tutti meglio. Questa per Mayuko era la ricetta della felicità, funzionare bene e farlo insieme. Quando ne parlava a Hirose lui ascoltava e con un sorriso commentava dicendo, forse non è tutto così facile.
Adesso nell’ufficio del capo con davanti la più grande occasione per dare una svolta alla carriera, Hirose si chiede qual’è la sua di funzione? Temporeggiare?
– Quanto tempo ho per decidere?
Morita toglie lo sguardo dal monitor, fa una pausa e con disgusto lo guarda dritto negli occhi.
– Non mi dire che per te questa è una sorpresa.
– No e sì.
Appena le aveva viste, appena sfiorate, aveva capito che quelle calze erano troppo strette e di cotone dentro ce ne era ben poco. Il primo bivio della giornata. Destra o sinistra. Fare come poi aveva scelto, ringraziare Mayuko e infilarsi le calze, oppure chiederle – magari alzando la voce – se non fosse diventata cieca o insensibile al tatto quando nel negozio aveva deciso di comprare la confezione da 5 paia di quelle sottili e trasparenti fette di polyester e carbone. Forse andavano bene per coprirsi la faccia e fare una rapina in banca, non per lavorare.
Non può decidere senza piedi. Qualcuno gli ha rapito i piedi e lo ha impalato con i moncherini delle caviglie nel pavimento. Morita non lo guarda e non gli parla. Sono entrambi nella stessa palude, anzi in uno stagno, due rospi che gracchiano nascosti fra il bambù. È lo stagno del disagio. Hirose è a disagio davanti alla scrivania perché non sa cosa dire, ha bisogno di Mayuko, non può decidere da solo. Morita è a disagio perché lui ha fatto il nome di Hirose quando sono stati scelti i candidati. Potrebbe invitarlo a bere una birra e convincerlo, una volta per tutte, fargli accettare l’incarico. Invece il nervoso gli mette una sigaretta in bocca e lo Zippo suona la carica della cavalleria, vorrebbe urlare, non lo fa. Al contrario abbassa il tono della voce e dice: hai una notte di tempo, ne parliamo domani a pranzo.
Quando raggiunge la sua scrivania si lascia andare sulla sedia e quasi scalciando sfila i piedi dalle scarpe, pochi secondi e sono nudi. Al riparo, tutti interi. Il sangue comincia a scorrere, dalle caviglie invade la pianta, porta ossigeno e tutte e dieci le dita respirano. Apre i cassetti, rovista dentro e trova un vecchio paio di calze da tennis che tiene di scorta perché finita l’estate inizia la stagione dei tifoni. Negli ultimi anni sembrano aver preso il posto dell’autunno e in giardino a fine settembre ci sono le zanzare. è ancora presto per tornare a casa, sono le sei del pomeriggio, oggi vuole fare una sorpresa a Mayuko. Tira fuori il cellulare per avvertirla, poi ci ripensa. E se telefona che sorpresa è? Vuole arrivare prima che cominci a cucinare. Questa sera ci facciamo portare la pizza, la ordiniamo da Vengo Su, la vera pizza a casa vostra. Anzi, no. Come aveva potuto confondere la pizza con la paella? E non una paella qualsiasi, l’autentica paella valenciana, il piatto preferito di sua moglie. Lei ama la Spagna, non l’Italia, con tutto quello che ha da fare riesce anche a frequentare le lezioni di spagnolo. La paella valenciana te la portano a casa?
Esce all’aperto, il cielo si sta preparando a far tramontare il sole, svuotare gli uffici, riempire le decine di birrerie, ristoranti e osterie di Marunouchi. È un peccato che l’aria non rinfreschi, il cielo è basso, scuro, sfiora la testa e piscia una pioggia sottile. Si chiede camminando: Elemetti avrà mai intuito la differenza fra le piogge? La pioggia di tutto l’anno, la pioggia della stagione delle piogge e la pioggia dei tifoni? Sorride fra se, come mai avrebbe potuto un bianco? Certo, venticinque anni sono lunghi, avrà notato qualche differenza? Non ha nessuna importanza, l’unica cosa è affrettare il passo, salire sul treno, tornare a casa.
La paella valenciana autentica quella con la zuppa di pesce e salsa alioli, nel quartiere dove abita lui, a casa non la portano. Se la vuoi te la cucini. Hirose questa sera vuole passare una serata indimenticabile. Arrivato alla stazione non esita e invece del solito supermercato sceglie Kadoya. Hanno il pesce migliore e il riso giusto per cucinare all’occidentale. Sono anni che non fa la spesa con questo piacere, decenni poi che la fa in un giorno feriale. Era un lusso dei giorni di festa o qualche volta la domenica. Quando arriva alla cassa si mette in fila e si guarda intorno. Sta a vedere che Mayuko è qui? Poi ci ripensa, a quell’ora è a casa con i bambini o è andata a prendere il più grande in piscina? La verità è che non se lo ricorda.  Mentre gira la testa per cercarla, nota che di uomini come lui, al ritorno dal lavoro che fanno la spesa, ce ne sono e non solo i mariti più giovani. Tutti però evitano il suo sguardo e giocano all’agente segreto.
Mayuko invece piange. È in treno, seduta con i bambini accucciati che sonnecchiano con la testa sulle cosce. Il vagone è quasi vuoto. Sta andando nella direzione opposta all’ora di punta. Vorrebbe dormire anche lei, non ci riesce da mesi. Guarda l’orologio e le lancette non sembrano muoversi, sono le sei e tre quarti. In mano ha le scarpe dei bambini e le sembra di stare davanti alla televisione, come quando decide che dopotutto, il film che danno stasera, lo guarderà ancora una volta. Per svagarsi. Sa già come va a finire. Oggi però è diverso perché la fine della storia non è così prevedibile. Non ha potuto scrivere altro, le ha pensate tutte, davvero.
Si chiede cosa succederà, quando avrà suonato e aspettato qualche secondo, aprirà il cancelletto. Dopo qualche passo, sorpreso dal silenzio del citofono e dal buio oltre le finestre, rimarrà stupito. Si guarderà intorno gettando un’occhiata verso le conifere, per vedere se è tutto in ordine. Girata la chiave nella toppa, aperta la porta, entrato in ingresso, appoggiata la borsa sulla scala a sinistra, non dirà come al solito tadaima, perché avrà capito che in casa è solo. Si leverà la giacca e messe le pantofole andrà in cucina, dove non troverà nessuno e allora raggiungerà il tavolo e sopra ci sarà la busta. Ci sono scritti gli ideogrammi della parola divorzio. E qui si blocca. Anche se vuole afferrarla subito, non ci riesce. Deve deglutire e deve togliersi le calze. Va meglio a piedi nudi, allunga la mano e la prende. È una busta vecchio stile, con la ceralacca e due nastrini per aprirla. Nota che in basso spicca il nome di uno studio legale. Tira fuori un plico, i documenti necessari per il divorzio. Consensuale e non. Poi quando gira la busta e la scuote per essere sicuro che dentro non ci sia altro, sul tavolo piove una bustina. Una di quelle piccole, rettangolari, colorate quasi sempre di rosso e bianco, magari con sovra impressa una bambolina, una di quelle bustine carine che  si regalano ai nipoti o a figli di amici con dentro la mancetta per il nuovo anno. Non vuole piangere e mentre lo fa, apre quella bustina che gli porta la fine, il magone, la vergogna e il sudore. Dentro c’è un bigliettino minuscolo. Lo apre e lo legge una, due, cento volte: noi due non funzioniamo più, voglio il divorzio, ho già compilato i moduli. Ne devi scegliere uno e firmarlo. Per favore. Mayuko.

つづく

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