Il primo bianco


(ottava puntata) di Michele Pinin

                                                                              non rientrare in te stesso, esci fuori

Ci sono persone che i figli non li dovrebbero fare. Così dicono in montagna, sulle Alpi occidentali, ai confini con la Francia. Qualcuno dice che il primo a dirla questa frase è stato Napoleone, altri Giulio Cesare e altri ancora Annibale. Una frase terribile. Raramente osiamo pensarla e quasi mai la tiriamo fuori dalla bocca. Però rimane nel nostro vocabolario, in agguato. Adele e Luca quella frase se la sono sentita dire un giorno, più di vent’anni fa. Abilmente sono subito riusciti a rimuoverla, perché proprio in quei giorni, quando quella frase gliel’avevano non urlata, ma quasi sussurrata in faccia, erano impegnati in un trasloco sventurato, lei si era rotta una caviglia travolta da uno dei tappeti del soggiorno sgusciato fuori dal camion della ditta di trasporti. Poi, come capita, una ventina di anni dopo, la frase gli era tornata in mente, a tutti e due, nello stesso momento, una mattina a colazione, quando Luca ha detto: chissà come sta il Franco. Era tornata come un boomerang lanciato nella notte che aveva avuto bisogno di tutti quegli anni per sorvolare oceani, continenti, capitali e dall’Australia arrivare a casa loro, nelle prime ore di una mattinata di settembre, quando erano tutti e due in balcone a bere il caffè e colpirli al petto. Il calcio di un mulo alla bocca dell’esofago. Con gli occhi strabuzzati, tentando di raggiungere la cucina, lasciando andare le tazze sul pavimento del balcone, cercando di spostare le tende. Non sanno cosa fare, manca l’aria, sono contenti di ritrovarsi seduti e non morti e pazienza per le tazze. Ce ne regaleranno delle altre.
Adele e Luca si erano sposati presto, come tutti alla fine degli anni 60 e avevano fatto  subito un figlio. Era stato Luca a insistere, lui ci teneva a fare una famiglia e lui voleva essere un padre diverso. Il suo di padre era stato un vecchio fascista intollerante, uscito a pezzi dalla seconda guerra. Era stato lui a farlo rinunciare ai sogni, a farlo scappare di casa prestissimo e mettersi a lavorare sulle navi. La notte che era riuscito a superare il cancello verde della villa, a tredici anni, pronto a scappare per sempre, Luca piangeva perché non avrebbe voluto lasciare la madre in mano all’orco. Sua madre però diciamo così era stata fortunata. Era confinata su uno sgabello, foderato in pelle, con attaccate quattro piccole rotelle che lei, spingendo con i tacchi, riusciva a far andare avanti e indietro. Era successo subito dopo la nascita di Giorgio, il fratello minore di Luca; la paralisi l’aveva costretta poco a poco in quella posa. Seduta. Per il resto dei suoi giorni. A quei tempi non sapevano come fare, come curarla. Le avevano diagnosticato una forma di anchilosi. Una forma di anchilosi progressiva che faceva perdere i movimenti delle articolazioni di braccia e gambe. Lei non provava dolore, si anchilosava poco a poco, come un animale preistorico, diventava più curva, più piccola. Un millimetro alla volta, spariva. Quando dormiva aveva tre posizioni da scegliere, sul fianco destro, su quello sinistro o sulla schiena, ma sempre con le gambe chiuse e rigide. Sedeva anche mentre dormiva. Per questo il marito non la tormentava anzi la proteggeva, non per affetto, per compassione.  Adele veniva da una famiglia tanto ricca quanto sfortunata. Erano dei nobili con una quantità di appartamenti, case, depositi, locali per negozi e parcheggi. I soldi però non sempre danno la felicità. Il padre di Adele, in ufficio dall’alba al tramonto, era morto il 24 dicembre del quinto anno di vita della figlia, alle nove di sera, in macchina pieno di regali, travolto dalla sbarra di un passaggio a livello azionata da un casellante alticcio. La madre invece, una donna fredda che nel sangue aveva la nebbia delle risaie di Vercelli era deceduta quattro anni dopo, un infarto improvviso.
Quando Luca e Adele si erano incontrati, 24 anni lui e 22 lei, sulla nave dove lavoravano, era stato un colpo di fulmine. Fasullo. Quello che loro avevano creduto un colpo di fulmine, un sentimento, era invece il vuoto che li accomunava. Aver passato l’infanzia, l’adolescenza e il resto, senza aver mai saputo rispondere alla domanda: che cosa è una famiglia? Loro avevano vissuto in posti che si potevano definire, più che una famiglia, la lobby di un grande albergo, la sala di aspetto di una stazione o di un aeroporto, una caserma, un campo profughi. La famiglia per loro era un luogo dove ognuno sta al suo posto, zitto e attento a non disturbare gli altri. Dove a tavola parla il padre, fa delle domande e se i figli, il maschio o la femmina, danno la risposta giusta, la madre sorride. Al contrario, nel caso di una risposta infelice,  scende il silenzio per qualche secondo e poi si sente la stessa frase, sempre uguale, a pranzo o a cena, in estate o in autunno, primavera o inverno: mi sembri stanco, forse è meglio che finisci di mangiare quello che hai nel piatto e ti vai a riposare.
Il problema è che Adele il bambino lo voleva, sì, ma non subito. Non proprio l’anno dopo che era riuscita trovare lavoro, l’anno in cui aveva finalmente lasciato casa. Avrebbe preferito volare e fare l’assistente di volo, gli aerei invece delle navi. Il mare non era il cielo, era comunque bello, imprevedibile. Lei voleva divertirsi un po’ voleva conoscere, vedere nuovi porti, incontrare nuovi clienti, provare a usare l’inglese. All’inizio Luca era rimasto deluso, gli era venuta la sindrome del Cocker, l’unica razza di cani che vivono 24 ore su 24 nell’angoscia di essere abbandonati. Poi però una sera, nel Salone delle Cerimonie della nave, guardandola sorridere ai clienti, in mezzo  all’oceano, ne aveva incrociato lo sguardo, sotto il cappello buffo della divisa e aveva sentito che quella era la sua stella. Quindi insieme, avevano deciso di aspettare uno o due anni, anche se a quei tempi la cosa faceva un po’ scandalo, fra conoscenti, amici e familiari. I figli prima si fanno meglio è si diceva. Loro una scusa pronta l’avevano. Uno dei due avrebbe dovuto smettere di lavorare, se si sposavano e facevano un figlio. Stessa famiglia, sì, ma non stessa azienda. Era così allora.
E quindi su e giù per la nave, lui al buio, nelle sale motori a controllare che gli ingranaggi della balena bianca – erano tutte dipinte di bianco le navi da crociera – si muovessero precisi come quelli dell’Omega al suo polso. Gli piaceva la sala macchine, gli piaceva tutto delle turbine, delle eliche spaventose che si facevano largo tagliando le gambe alle onde. Gli piacevano la puzza, le cinghie ben tornite, il sorriso dei meccanici che credevano in lui. Risaliva da quella fornace subacquea nel tardo pomeriggio per cambiarsi, sedersi e presentare rapporto al comandante e agli altri ufficiali. Pronto per la cena, in divisa.
Avevano girato tutto il Mediterraneo e adesso stavano spingendosi per la prima volta oltre le Colonne d’Ercole verso il Portogallo per risalire e arrivare al nord, in Gran Bretagna. Le crociere in quegli anni per gli ospiti a bordo erano dei viaggi verso l’ignoto. Si leggeva sul volto di tutti una certa trepidazione. Certo sapevano dove andavano, nessuno però prima di quella crociera aveva navigato in mare, per raggiungere la meta. Di moda infatti andavano più gli aerei e le automobili.
Erano riusciti a ottenere una manciata di giorni liberi nello stesso periodo e avevano scelto Londra. Avevano tutti e due qualcosa da far vedere all’altro, adoravano camminare abbracciati e guardare gli inglesi più stravaganti, con i pantaloni all’acqua alta, le calze rosa, le scarpe da ginnastica con il vestito intero. Erano entrati da Harrods e avevano speso mesi di stipendio per comprarsi delle maglie, non dei maglioni, di cachemire dello stesso colore. Poi soprattutto chiavavano. Con gusto. Adele era vergine la prima volta che lo avevano fatto. Luca faceva finta di essere esperto, in verità era come quegli alpinisti che vanno in montagna con le pedule sbagliate, la giacca a vento troppo leggera, senza una mappa, ma con il telefonino. Insomma ce ne era per tutti e due. In più a oliare la situazione si era aggiunto un amico di Luca che lavorava in uno degli alberghi più belli e accoglienti della capitale. The Connaught a Mayfair. Era stata una vera sorpresa per Adele. Non era la prima volta che riuscivano a trafugare qualche notte di lusso nei giorni di permesso, ma in questo albergo c’era qualcosa di nuovo. Al loro arrivo i clienti hanno a disposizione un maggiordomo. Un vero maggiordomo che si prende cura di te, quando vuoi, 24 ore su 24. Un konbini di altri tempi. Naturalmente il maggiordomo era più utile agli uomini di affari e alle famiglie, Luca e Adele lo usavano come una sorta di guru, di voce narrante a cui chiedere tutto su tutto senza imbarazzo o pietà.
La cosa che non avevano chiesto, la domanda che non riuscivano a tirare fuori dalla bocca, era perché quei maledetti preservativi inglesi talvolta si rompono, si lacerano nel momento sbagliato, lasciando le turiste incinta. Questo non gliel’avevano chiesto, avrebbero avuto gli occhi pieni di lacrime. Lacrime di gioia e di rammarico, un misto brutale che irrita gli occhi e fa diventare rossi in volto. Nostro figlio, sì, ma perché adesso? Il resto della crociera era stata per tutti e due come avere la testa nel forno a microonde e i piedi nel freezer. Stavano bene, si ripetevano, stavano bene. Aspettiamo, torniamo a casa e poi con calma facciamo gli esami. Non era vero. La cosa che avevano meno al mondo era il tempo e dunque la calma. Luca poteva vedere negli occhi di Adele un fascio di luce verde e ascoltare le urla, lo sgomento, la violenza. Era Hulk, che non smetteva di prendere il cuore di Adele e sbatterlo dall’alto in basso, come sa fare solo lui.  Lo sbatteva, lo tirava a destra, a sinistra, lo riprendeva e lo sbatteva ancora. Una mazza senza niente da colpire.
Passata qualche settimana era tutto chiaro. Non potevano che tenere il figlio perché abortire, oltre a essere illegale – sì, c’erano le mammone e i loro ferri – per Adele e Luca era semplicemente impensabile. Era una di quelle cose che anche se si sforzavano non riuscivano davvero a pensare. La soluzione era una sola, quella prevista: Adele avrebbe smesso di lavorare e avrebbe fatto la mamma. Luca avrebbe lavorato di più facendo viaggi lunghi e pagati meglio. Così nel giro di pochi mesi, Adele da principessina di Mayfair si ritrovava a recitare la parte di Cenerentola incinta. I lavori domestici e cucinare, erano due cose, anzi le due cose che si era ripromessa di non fare. Mai. O almeno non subito. Lei voleva lavorare, lei voleva viaggiare. Si ripeteva che la sua vita era durata un anno, quell’unico anno  sulle navi. Luca per allietare la moglie disperata aveva provveduto a una babysitter e alla cameriera. Adele allora, buttati via i panni di Cenerentola, aveva provato a fare la vita della signora per bene. Il circolo del tennis, shopping, cene e pranzi, alberi di Natale, feste di compleanno e Marlboro rosse, tante, montagne di sigarette che bruciano. E come per ogni signora per bene, un esaurimento nervoso e la conseguente depressione. Tutto incluso.
Il figlio che avevano chiamato Franco, come il padre di Adele, cresceva e lei ne era spaventata. Mentre Luca era alto, un metro e ottanta centimetri con un fisico longilineo, lei era solo 163 centimetri, ma ben proporzionata. E allora perché aveva partorito quel mostro di quattro chili e trecento grammi? Da dove arrivava quell’essere, che l’aveva obbligata a subire un parto cesareo e un dolore così forte che dalle viscere le era entrato nell’anima, cominciando a coltivare una forma di risentimento, una voglia di vendetta verso quel mostro che in un colpo solo le aveva accorciato la vita condannandola fra le quattro mura di casa?
Detto fatto, Franco il mostro cresce e diventa sempre più mostro. 190 centimetri, 90 chili di peso e coltiva dall’età di sei anni l’arte del disagio. Mette a disagio e si sente a disagio. Dovunque. Non è brutto anzi, forse è anche troppo bello, non se ne accorge, non collega il fatto che se le ragazze lo cercano e lo vogliono, non è merito solo dei libri che legge. Ecco un’altra cosa che mette a disagio: con quel fisico dovrebbe avere solo due strade davanti, lo sport o la carriera militare, invece al mostro piacciono i libri. Passa il tempo ai giardini pubblici e legge libri su libri. Entra all’università. Facoltà di Lettere e Filosofia, sentendosi a disagio anche al momento dell’esame, le domande le fa lui per primo. I professori capiscono, apprezzano e sul libretto, scrivono 30 e lode dopo qualche minuto. E questo lo rende ancora più solo e nervoso. Vuole delle risposte. Torna a casa e sua madre dorme. E quando non dorme fuma. In cucina o in soggiorno. Gli dice bravo perché va bene all’università. Lui risponde grazie, mentre deve mettersi una maglia in più per il freddo che sente uscire dalla bocca di quella donna. Il padre invece parla e molto. Da quando è piccolo gli ha chiesto di considerarlo non come un padre, ma come il suo migliore amico. Che cazzo vuol dire? Si chiede volgarmente. Di amici ne ho, da te voglio un padre.
Non lo dice, perché capisce che il padre è in buona fede o meglio pensa di esserlo. Con il figlio quando è a casa ama parlare. Racconta e parla e non ascolta. Come una radio sempre accesa, sintonizzata sullo stesso canale. Franco detto il mostro, un giorno, il giorno della sua laurea, con lo zaino sulle spalle, dopo aver venduto tutto, stereo, giubbotto di pelle, la bara (soprannome della Kawasaki Z750), il casco, i CD, i dischi e tutti i libri, va in cucina. Con calma e senza alzare la voce, anzi abbassandola, spiega ai suoi seduti in vestaglia e con in mano la tazza del caffè, intenti a litigare con sua sorella, che ci sono persone che i figli non li dovrebbero fare.
–  Cosa vuoi dire? Dove vai?- dice suo padre.
–  Parto, vado via, dall’altra parte del mondo.
–  Cosa dici, parti per dove?
–  Giappone.
–  Giappone? E perché? Cosa ne sai del Giappone?
–  Niente. Un paese vale l’altro. Tu l’hai detto: tutto il mondo è paese.
–  E allora, perché proprio il Giappone?
–  E’ lontano. Molto.

つづく

2 pensieri su “Il primo bianco

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