“Lo voglio, guarisci!” (o della lebbra in Giappone)


“Una volta, monaci, qui a Rajagaha, Suppabuddha il lebbroso era il figlio di un ricco usuraio. Mentre veniva accompagnato in un parco, vide Tagarasikhi il Buddha Solitario che andava in cerca di elemosina in città. Nel vederlo, pensò: ‘Chi è quel lebbroso errante?’ Dopo aver sputato e irriverentemente girato intorno sulla sinistra di Tagarasikhi il Buddha Solitario, andò via. Come risultato di quell’azione si consumò nell’inferno per molti anni, molte centinaia di anni, molte migliaia di anni, molte centinaia di migliaia di anni.”

(Il lebbroso, kutthi sutta, da Udāna o “detti solenni del Buddha”)

yamato56_3

L’imperatrice Komyo 光明皇后 (701-760), modello leggendario di virtù buddista, si dice che abbia lavato il corpo di mille sudditi presso i bagni del tempio Hokke-ji 法華時 di Nara. Caso volle che il millesimo fosse un lebbroso, che chiese gli venissero lavate le suppurazioni  delle piaghe. Komyo non solo lo lavò, ma succhiò con la sua stessa bocca il liquido purulento. In quel momento il corpo iniziò a emanare luce e il lebbroso si rivelò essere  il Buddha Akshobhya (da “Le 69 stazioni di posta sulla strada Kisokaido” 木曾街道六十九次之内 di Utagawa Kuniyoshi 歌川国芳).

La notte del 1 agosto 1951, nel villaggio di Kikuchi (prov. di Kumamoto), qualcuno solleva la zanzariera sotto cui dormiva un ex impiegato dell’ufficio di salute pubblica e suo figlio per introdurvi un candelotto di dinamite acceso. Il candelotto esplode solo parzialmente ferendo leggermente l’impiegato e il bambino (giudicati guaribili in circa una settimana). Ad essere arrestato è Fujimoto Matsuo 藤本松夫, all’epoca ventinovenne, che viene condannato a dieci anni di reclusione per tentato omicidio e detenzione illegale di  materiale esplosivo. Inutili la procalamazione di innocenza di Fujimoto e il ricorso nei tre gradi di giudizio.

 

L’anno dopo, il 16 giugno, Fujimoto evade dal centro di detenzione. Tre settimane più tardi il corpo senza vita dell’impiegato di cui sopra viene trovato con i segni di venti pugnalate.

Una caccia all’uomo porta a catturare nuovamente il fuggitivo, il quale si trova a dover affrontare un processo aggiuntivo, stavolta con un’imputazione ben più consistente, aggravata dalla presunta recidività. La sentenza stavolta sarà quella capitale.

Numerose voci iniziarono a correre su questo processo e sulla sua conduzione. Il brusio iniziale si fece più rumoroso, un rivo divenne un fiume in piena a mano a mano che un movimento di intellettuali e attivisti si sollevò chiedendone la revisione. La vittima (che per ironia della sorte faceva anche lui di nome Fujimoto) pare fosse un personaggio particolarmente inviso nel villaggio di Kikuchi: con così tanti nemici persino troppo facile far cadere la colpa su Fujimoto; nessuna traccia di sangue sui vestiti e sull’arma del delitto (inizialmente individuata in un falcetto, ma poi cambiata improvvisamente in una spada corta), tra l’altro trovata a notevole distanza dal luogo del delitto (“sarà stata lavata con l’acqua”, la dichirazione indiziaria dell’accusa); nonostante la ferita da arma da fuoco al braccio subita nel corso dell’inseguimento, Fujimoto venne interrogato duramente e senza riguardo della sua condizione fisica, senza ascoltare quanto avesse da dire e spingendo per una confessione a tutti i costi… Sono solo alcuni esempi, ma perché tanto accanimento?

Perché Fujimoto Matsuo era un lebbroso, e di fatto – per lui – il processo fu condotto a porte chiuse.tokubetu-hotei160228

(Tra parentesi, l’’impiegato-vittima era colui che lo aveva denunciato all’autorità sanitaria, sancendone il ricovero coatto, elemento che fece propendere per sistemare il caso come un atto di vendetta).

Fujimoto Matsuo, che si proclamò innocente fino alla fine, fu giustiziato il 14 settembre 1962, un giorno prima che la terza richiesta di revisione venisse respinta. Nel 2005, una commissione interna del Ministero della Salute denunciò pubblicamente il difetto di costituzionalità del processo (qui la versione integrale http://goo.gl/C0zYZo).   

Torniamo a oggi.
Il 25 aprile scorso, la Corte Suprema giapponese ha presentato pubbliche scuse per aver perpetrato la regola che ammetteva la creazione di aule separate per i processi che vedevano imputati malati di lebbra.

(Lebbra… lascio il termine desueto apposta, e non l’asettico “morbo di Hansen”, per assaporare, mentre scrivo, tutta l’evocatività che il termine ha su di me, bambino cresciuto a suon di racconti evangelici in cui la lebbra faceva cadere dita e setti nasali al solo trascinare un passo dopo l’altro, e immaginare Cristo che toccava un… un lebbroso, comunicava la stessa sensazione di un ragno che ti si arrampica per la schiena)

05-6世紀の聖書解説書(ハンセン病者は悪魔にとりつかれたとされた)1-333x350

Da un’esegesi biblica del VI sec.

 

Le scuse – notano in molti – sono in ritardo di ben 15 anni su quelle presentate dal governo dell’allora premier Koizumi Jun’ichiro e poi dalla Dieta giapponese, a seguito alla sentenza del 2001 della corte distrettuale di Kumamoto in cui si dichiarava che successivamente al 1960 – in base all’analisi dei dati medici in possesso – le politiche di segregazione non avevano più ragione di esistere (e dal termine “lebbra” 癩病 raibyō si passò al più neutro “morbo di Hansen” ハンセン病 Hansen-byō).

La ragione del ritardo? Apparentememte il principio di indipendenza garantito dalla Costituzione all’esercizio di coscienza dei giudici, principio che avrebbe potuto essere leso da un’inchiesta. Nella dichiarazione rilasciata dalla Consulta dei 15 giudici, assieme alle scuse, si legge: “Le corti speciali hanno fomentato il pregiudizio e la discriminazione, e hanno causato ferite profonde ai pazienti e alla loro dignità”.

Le aule ad hoc erano spesso allestite nei sanatori o direttamente nelle prigioni, il personale spesso vestiva abiti bianchi, guanti di gomma, e gli oggetti probatori venivano spesso manovrati attraverso lunghe bacchette di metallo per evitare il contatto diretto. Non che non fosse ammesso il pubblico (altro principio garantito dalla Costituzione), ma l’annuncio era appeso solo all’entrata del sanatorio o del luogo in cui si teneva il procedimento, non esattamente un punto di alta affluenza.

Tra il 1948 e il 1975, 95 processi (su 96 richieste) si sono tenuti in locazioni esterne alle normali aule di giudizio. Di queste, 27 risalgono a un periodo successivo al 1960, e quindi palesemente in contravvenzione alla sentenza della corte di Kumamoto.

Pur riconscendo che la pratica è stata discriminatoria dei confronti dei malati e in violazione della legge che regola l’organizzazione delle corti, nel documento ufficiale non si fa cenno alla possibilità che l’usanza rivestisse carattere di anticostituzionalità, laddove non riconosceva pari diritti ai cittadini e ostacolava il principio per cui un processo deve essere pubblico, elementi invece contenuti nel rapporto della commissione d’inchiesta (anche se poi l’ammissione di sospetta incostituzionalità è stata espressa a parole dal capo delle Segreteria generale nel corso della conferenza stampa), e questa è sicuramente una delle mancanze più sentite dalle associazioni dei malati che hanno spinto per l’inchiesta.

Ma vi sono anche altri ordini di problemi: processi istituiti sotto una pesante cappa di pregiudizio, potevano essere in grado di emettere sentenze equanimi? E’ l’interrogativo che si pone ad esempio Oguri Minoru 小栗 実 specialista in problemi costituzionali e professore presso la facoltà di legge dell’università di Kagoshima, il quale aggiunge che “la Corte Suprema avrebbe dovuto affrontare il problema dall’ottica del diritto umano” e non – integro io – da quella del difetto procedurale.

Non è un caso che la sentenza che ha posto fine alla segregazione sia stata emessa a Kumamoto. Nella città è presente una delle maggiori tra le tredici strutture nazionali di isolamento dei pazienti di lebbra del Paese. Come abbiamo visto Kumamoto è stato il teatro del “caso Kikuchi”. Di fatto, la richiesta di indagine avanzata presso la Corte Suprema altro non è che una coda delle contestazioni che hanno fatto seguito al caso Kikuchi, avanzate dagli avvocati delle associazioni di malati che richiedevano una revisione del processo.

o0585038513118925106

La comunità di lebbrosi che da sempre si raccoglieva per elemosine e altro intorno al tempio buddista Nichiren Honmyo-ji 本妙寺, nella città di Kumamoto, viene fatta definitivamente sfollare nel 1940.

I malati di lebbra in Giappone sono stati sottoposti a un regime di segregazione (in molti casi coatta) sulla base della legge di prevenzione della lebbra (癩予防法), risalente al 1931, successivamente modificata ma mai realmente abolita fino al 1996. Malattia a bassissimo rischio di contagio, e di fatto curabile subito dopo la seconda guerra mondiale grazie al trattamento con Promin, medicina sintetizzata negli Stati Uniti nel ‘37, non ha mai smesso di innescare nell’immaginario collettivo giapponese un senso di timore e di rifiuto (anche a causa dell’assenza di politiche di informazione da parte delle autorità). Non certo solo il timore concreto di venire contagiati: la ripulsione che ha fatto della lebbra “la malattia più antica del mondo”, era lo stigma che costringeva chi ne era segnato a una vita nelle stanze più buie e remote della casa, o ad abbandonare la propria casa per diventare un lebbroso errante (hororai 放浪癩).

1524_img122-300x168

Manga e anime sono spesso e volentieri in anticipo, l’ho già detto. In Mononoke hime (1997), il regista Hayao Miyazaki affida a dei lebbrosi la costruzione dei fucili per Eboshi Gozen, la donna-guerriera a capo della “comune” Tatara. La loro malattia è il gobyo 業病, lett. la malattia del karma, come venivano chiamate all’epoca le malattie incurabili、 di cui la lebbra era il caso forse più rappresentativo.

Lebbrosi erranti che non potevano però essere mostrati all’occidente nel momento in cui il Giappone faceva capolino tra le nazioni “moderne”. Nacquero così i primi provvedimenti dell’era Meiji, grazie ai quali i lebbrosi smisero di essere erranti per essere assistitti in strutture speciali. Speciali significava naturalmente separate dal resto della società, mantenendo e nutrendo così nella gente la percezione della pericolosità della malattia.  

 

 

 

 

download

Shirato Sanpei, nel suo taccuino delle arti mariiali ninja – La leggenda di Kagemaru (忍者武芸帳 影丸伝, 1959) fa approdare Jutaro in un isola deserta, dove un monaco cinese affetto da lebbra gli insegnerà la tecnica dell'”onda tambureggiante”波の鼓. L’isola, deserta o meno, non era solo una delle poche scelte lasciate ai lebbrosi delle epoche andate. 6 delle attuali 13 strutture nazionali di cura per la lebbra sono situate su un’isola.

 

Aluni medici (uno per tutti Ogasawara Noboru 小笠原登, 1888-1970) cercarono tra il ‘30 e il ‘40 di contrastare le potiche di isolamento o quelle che prevedevano la castrazione preventiva come condizione al matrimonio tra pazienti, attirandosi solo le ire di una classe medica molto conservatrice che (probabilmente convinta di agire per il meglio ben conoscendo il livello di discriminazione a cui sarebbero andati incontro i malati una volta fuori dalle strutture) ne ha favorito la perpetuazione. La modifica della legge del ‘53 viene così descritta nella pagina di presentazione della lebbra del Ministero della salute giapponese: “i ricoverati guardavano a se stessi come dei malati, non dei criminali, pazienti che presto sarebbero guariti e per i quali le condizioni dovevano andare incontro a un miglioramento.

Nel 1951 si riunirono in un comitato nazionale chiedendo al governo la revisione della legge. Nel 1953 questa venne però approvata scavalcando la feroce opposizione dei malati. L’esistenza di questa legge si dice abbia favorito ancora di più il pregiudizio e la discriminazione nei confronti del morbo di Hansen, la possibilità di un matrionio o di un lavoro continuò a venire negata sia a loro che ai loro familiari. Chi teneva nascosta la propria condizione di malato per non essere internato nei centri di cura viveva una vita di paura, oltre a non avere la possibilità di ricevere cure adeguate”.

Una nota di colore: i treni speciali destinati al trasporto dei malati di lebbra alla detenzione dei centri di cura loro dedicati, con magistrale tocco di umorismo nero venivano chiamati omeshi ressha お召列車, il nome onorifico riservato al “convoglio delle Loro Maestà Imperiali”.

 

CVWJxb-UYAEG9Zt

L’attrice Watanabe Misako 渡邊美佐子 nell’opera Omeshi ressha (2015) del regista teatrale Sakate Yoji 坂手洋二, accanto al fantasma del figlio mai nato (i pazienti all’interno dei sanatori venivano spinti a abortire o a sottoporsi a un’operazione che li rendeva sterili)

 

 

Lascia un commento / Leave a Reply