IL GIAPPONE E IL CORONAVIRUS – Tra serenità e disperazione (27 marzo 2020)

Ebbene sì, siamo tornati. Dopo una lunga assenza – come il nostro inseparabile dizionario Shogakukan traduce l’espressione hisashiburi ni – riecco il nostro BUROGU. Noi, che per forza o per passione, continuiamo a vivere in Giappone, siamo tornati, più (semi)seri di prima, perché abbiamo iniziato a sentire il bisogno di raccontarvi come vanno le cose qui in questi strani giorni.

Il nuovo coronavirus ha purtroppo ormai raggiunto quasi ogni angolo del mondo. Ogni paese reagisce a modo proprio all’epidemia, all’improvvisa quarantena, alla paura della minaccia invisibile, all’incertezza riguardo a ciò che verrà. Il virus ci ha colti tutti impreparati, e purtroppo sta mietendo in tutto il mondo un numero impressionante di vittime. Ma il coronavirus non è solo la causa di una malattia. Si tratta di qualcosa di più profondo, di più subdolo, di più crudele, di più beffardo. Sta giocando con noi, ci sta prendendo in giro, ci sta costringendo a cambiare vita, a renderci piu’ diffidenti verso gli altri, ad agire con sospetto anche nei confronti di noi stessi e delle nostre azioni quotidiane. Non siamo noi a isolare il virus, è il virus che sta isolando noi. E nell’isolarci ci sta mettendo allo specchio, lo specchio magico della Storia Infinita (ve lo ricordate?) e ci sta mettendo faccia a faccia con quello che siamo veramente: ecco davanti ai nostri occhi le nostre mediocrità, le nostre debolezze, le nostre paure più nascoste, i nostri fantasmi. E spesso ci ritroviamo nudi e vulnerabili, sia di fronte al virus che di fronte a noi stessi.

Ebbene, veniamo al dunque. Che cosa sta succedendo in Giappone in questi giorni? In due parole (anzi, tre…): tutto e niente.

Prima il tutto: scuole chiuse, gente che a intervalli di panico (ir)regolari corre al supermercato a comprare carta da q (leggi chiù – il verso dell’assiuolo di pascoliana memoria), surgelati, pasta e ramen istantanei, acqua, pane secco, ecc…; mascherine e disinfettanti introvabili o venduti in rete a prezzi piu’ brutti di Mariangela Fantozzi, uomini con civette tatuate sul collo che si atteggiano a esperti, che sul Tubo giurano  di essere i possessori di verità nascoste in merito alla situazione giapponese, e che, senza volerlo, diventano piu’ virali del Corona (e non sto parlando di Fabrizio) salvo poi essere smentiti impietosamente, imminente blocco totale degli ingressi di cittadini non giapponesi, con blocco di quasi tutti i voli da e per l’estero (situazione che richiama atmosfere di sakoku di tokugawesca memoria) grande confusione per cio’ che riguarda i visti turistici e non (le informazioni giuste le trovate sul sito dell’Ambasciata Italiana di Tokyo! E se siete nel dubbio, fate una telefonata!), e chi più ne ha, più ne metta.

Ora passiamo al niente: niente nel senso che, dopo la preoccupante incertezza mostrata dalle autorità giapponesi nel risolvere la difficile questione del rimpatrio dei connazionali dalla Cina, il dilemma di come gestire i passeggeri della Diamond Princess, il basso numero di test effettuati nei mesi di febbraio e di marzo, e il conseguente basso numero di casi positivi e di decessi da coronavirus, dati che lasciano perplessi sia noi stranieri residenti qui che il mondo intero, ecco che arriva la decisione fatidica del CIO: Olimpiadi di Tokyo 2020 rimandate al 2021, incassata da Abe senza apparenti rimostranze…

Niente nel senso che, nonostante alcune blande avvertenze a mantenere le distanze, a cancellare le riunioni, ad annullare le feste di laurea (senza bisogno di lanciafiamme), a mettere la mascherina e a fare il gesto dell’ombrello con la bocca quando si starnutisce, molti giapponesi, nonostante tutto, continuano a prendere il treno, ad andare al lavoro, ad andare al karaoke, ad andare agli incontri di K-1, a fare hanami ammirando l’effimera bellezza dei fiori di ciliegio strafocandosi di kara-age e inquartandosi di birra, insomma, a vivere come se nulla fosse, preoccupati, sì, ma parlando poco della cosa, e osservando ciò che sta accadendo nel mondo senza sentirsi fino in fondo parte di esso. Attenzione, però: questa non è indifferenza, anzi. C’è sincera preoccupazione per quello che sta succedendo in Italia e nel resto del mondo. Tuttavia, sembra che molti fatichino a concepire questo problema come una minaccia incombente, o meglio, già presente sul territorio.

Questa atmosfera di apparente normalità e scarsa preoccupazione scaturisce da due elementi che caratterizzano la società giapponese di oggi: il primo è lo heiwa-boke(平和ボケ)una sorta di “torpore sociale dovuto a un eccesso di pace”, o meglio, dovuto alla prolungata assenza di conflitti o crisi di portata tale da coinvolgere l’intera società. Ma non solo: heiwa-boke significa anche ignorare (per propria volontà, per semplice disinteresse, o per mancanza di mezzi) ciò che succede al di fuori dei confini nazionali (se non è coinvolto direttamente il Giappone). Per fare un esempio pratico, i programmi mattutini dei canali “standard” (non BS o satellitari), dove, nonostante stia per scoppiare la terza guerra mondiale, dopo una breve e distratta carrellata basata soprattutto su notizie interne, si parla dell’omelette più buona di Tokyo (con immancabile assaggio e oishii finale), dell’arresto dell’ ”attrice” (ci vorrebbero 14 virgolette per lato) Erika Sawajiri o del modo migliore di frullare le arance, sono una dose giornaliera di heiwa-boke per milioni di studenti, salaryman o OL (Office Lady) che stanno per uscire di casa. I conflitti, le guerre, le crisi che accadono nel resto del mondo non sono percepiti, o se lo sono, vengono percepiti come qualcosa di remoto, di scarsamente minaccioso.  Come se il Giappone si trovasse all’interno di una bolla. Vi posso assicurare che come situazione è piacevole. Niente liti o dibattiti-pollaio in TV. Tutto procede bene, senza intoppi, in armonia. Meno grilli per la testa, meno preoccupazioni e più tranquillità portano a una maggiore concentrazione sul lavoro. Come sedersi su una poltrona comodissima e morbidissima, e addormentarsi piano piano, senza più pensare a quando toccherà risvegliarsi, e rialzarsi.

Il secondo elemento è il kotonakare-shugi (事勿れ主義) un’altra attitudine sociale (ma allo stesso tempo un meandro del complesso circuito mentale di molti singoli individui) che si lega allo heiwa-boke, ed è la tendenza a non affrontare di petto i problemi per risolverli, ma a cercare di risolverli ignorandone o mistificandone l’esistenza, nel fervente desiderio che questi ultimi in qualche modo si risolvano da soli. Insomma, fare finta di niente. Nascondere la polvere sotto il tappeto ed evitare il più possibile di parlarne. Senza assolutamente agire in maniera attiva e senza prendere decisioni ferme (se non dopo ripetute e interminabili riunioni e discussioni). Ma che piaccia o meno, i problemi difficilmente si risolvono da soli, purtroppo.

Ed ecco che ritorniamo all’emergenza coronavirus in Giappone: Da una parte il confortevole “stato di ebbrezza” sociale dovuto allo heiwa-boke spinge il singolo cittadino a non curarsi troppo della minaccia invisibile, e a uscire, a vivere come se niente fosse. Dall’altra, il modo che le autorità giapponesi hanno di affrontare la crisi, i tanti interrogativi legati ai numeri “ufficiali” degli infetti e dei decessi per coronavirus (che sono “magicamente” aumentati all’improvviso immediatamente dopo la cancellazione delle olimpiadi), e questo apparente timore di prendere decisioni drastiche o impopolari sono modi di agire legati in qualche modo all’elemento kotonakare-shugi.

Tuttavia, la combinazione di questi due elementi culturali tipici del Giappone nel caso specifico della crisi dovuta al coronavirus, non possono non portare a risultati assolutamente disastrosi.

Il nostro Abe, come gli altri leader mondiali, si trova stretto tra due fuochi e tra mille voci discordanti: tutelare la salute delle persone bloccando l’avanzata del virus e il collasso del sistema sanitario imponendo un lockdown, oppure lasciare che tutto proceda come sempre allo scopo di salvare l’economia e il lavoro (salvo avere, nella peggiore delle ipotesi, qualche milione di morti…). Ma il coronavirus non aspetta. E tra marzo e aprile il Giappone si “rimescola”: la gente si sposta, trasloca per motivi di studio, di lavoro, ecc…

In poche parole, da una parte chi vive in Giappone (compreso Abe e compresi anche noi alie… ehm… gaijin, eh, che sia chiaro!) deve cercare di affinare il proprio modo di agire nei confronti del maledettissimo virus cercando di non ripetere gli errori fatti da altri ed emulare i comportamenti virtuosi osservando ciò che accade negli altri Paesi. E per farlo deve riprendersi dal piacevole torpore dell’heiwa-boke. Dall’altra il nostro Abe e i governatori delle Prefetture devono “darsi una mossa”, ossia prendere decisioni drastiche e ferme al più presto possibile, mettendo fine al dannoso prolungarsi di chiacchiere e decisioni contraddittorie e prive di senso. Forse è già troppo tardi. Ma forse no.

In ogni caso, regalare ore, giorni, settimane al coronavirus non è certamente la migliore strategia da seguire. Bisogna agire in fretta, altrimenti nulla del salvabile potrà essere salvato.

Come andrà a finire? Come sempre, solo Giucas Casella lo sa.

Un po’ di GoldenWeek

Come state?

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Non ci sentiamo da molto tempo: purtroppo la vita quotidiana in Giappone nel concederti molte opportunità ti toglie parecchio tempo libero. Mi sono fermata, ma spero di ricominciare a scrivere molto presto. Continua a leggere

Forse non tutti sanno che… Il Furusato Nōzei – Come pagare le tasse e ricevere in cambio prodotti tipici da ogni angolo del Giappone.

 

unnamedRagazzi, ohisashiburi de gozaimasu. Ecco a voi un articolino breve breve, scritto ampress ampress tra tanti impegni, ma che mi scappava di scrivere a tutti i costi, anche perché si avvicina la fine dell’anno solare (a cui spero vivamente che il Giappone arrivi, dati gli ultimi sviluppi geopolitici in quest’angolino di mondo), ergo, avete ancora tre mesi quasi interi per poter beneficiare delle informazioni contenute nell’articolo, il quale si autodistruggerà a fine anno come un pallone di Maradona o come a bbomb e’ Chimgiongun (che pericolosamente suona un po’ come un chitemmurt) i cui preparativi procedono speditamente nella città partenopea.

Il Furusato Nōzei, dunque. Si tratta di una simpatica iniziativa adottata dal governo nipponico a partire dal 2008. Tradotto in maniera prosaica significa “Sostegno fiscale nei confronti delle zone piu’ remote, depresse e spopolate dell’Impero nipponico”. E tradotto in maniera piu’ poetica significa “Sostegno fiscale per i nostri cari villaggi natii pieni di alberi, erba e augelli ma a cui i giovani virgulti voltarono le spalle abbandonando gli attempati genitori in lacrime e in attesa di un loro ritorno in un’estate che mai verrà”.

Adesso la smetto.

Allora, prima di tutto una domanda. Che cosa riceve di immediatamente utile o di terribilmente figo chi paga le tasse? La risposta, come Cetto insegna, è: “’Na beata minchia!”.

Ma non è così per chi decide di fare il Furusato Nōzei. Infatti, chi decide di donare una parte delle sue tasse (e soprattutto quelle che andrebbero in tasca al proprio comune di residenza, ovvero le shiminzei) a un qualsiasi comune a propria scelta, riceve in cambio un prodotto tipico della zona, ad esempio carnazza di manzo massaggiato, pesce, riso, birra, farina, miele, frutta e ogni ben di Dio proveniente da ogni parte dell’Impero. Ma non solo roba da mangiare. Anche oggetti come vestiti, soprammobili, accessori, armature da samurai a grandezza naturale (non scherzo!), esperienze come corsi di ceramica, viaggi, giri in elicottero, o addirittura buoni per incaricare addetti alla pulizia delle lapidi al cimitero. Insomma, non c’e’ che l’imbarazzo della scelta. Ecco uno dei vari link per scegliere il vostro prodotto preferito.

https://www.furusato-tax.jp/rank.html

Insomma, una gran pacchia! Ma io ho dei poteri soprannaturali da non sottovalutare, mi sono specializzato in pinotismo applicato presso l’Università di Jena e riesco a leggervi nel pensiero. Nelle vostre menti aleggia un soffio di scetticismo, voi credete che ci sia qualcosa sotto. E infatti c’è. Ma aspettate a tirarmi i pomodori. Vediamo in soldoni come funziona il sistema nel caso in cui si faccia la dichiarazione dei redditi (kakutei shinkoku – come faccio io) e quali sono le magagne.

1) C’è un limite più o meno ben definito per la somma donabile, che potete calcolare in pochi minuti nella pagina seguente, inserendo il totale dei vostri guadagni annui e il numero dei familiari divisi per fasce di età:

http://furu-po.com/simulation?utm_source=yahoo&utm_medium=cpc&utm_campaign=04

A quanto pare, meno si è in famiglia, meglio è. Per chi vuole andare a occhio, c’è anche una tabella. Forza, siore e siori, provate!! Niente paura! Chi di voi supera i 10 milioni di yen all’anno e viene massacrato di tasse, ha un’ottima occasione per vendicarsi istess’ di Django e riempirsi la dispensa!

2) Le “donazioni” vanno fatte in anticipo entro l’anno solare corrente; in pratica le tasse che di solito si pagano l’anno successivo, vengono pagate nel momento in cui si ordina il prodotto desiderato, cioè suuuubbbeto (con tono intimidatorio e accento siculo). Pochi giorni dopo l’ordinazione, il comune manda una lettera di ringraziamento alla quale è abbinato un documento ufficiale che attesta l’avvenuta donazione. I documenti ricevuti dopo le varie donazioni vanno conservati con cura e presentati al fisco al momento della dichiarazione dei redditi(da fare a cavallo tra febbraio e marzo dell’anno successivo). La detrazione fiscale avviene in parte al momento della dichiarazione dei redditi, ma il grosso della detrazione avviene a maggio/giugno, quando vi arrivano le rate della shiminzei  e kenminzei  (o tominzei o fuminzei, che dir si voglia).

3) Tutto questo, per il contribuente, ha un costo fisso pari a 2000 yen. In pratica, al momento della dichiarazione dei redditi, dall’importo totale delle donazioni vengono tolti 2000 yen. Ad esempio, donate un totale di 100000 yen, l’importo che viene scorporato come donazione (kifu) dal reddito annuale (shotoku) sarà di 98000 yen.

Certo, i duemila yen bisogna cacciarli, ma suvvia, non fate i taccagni! Che cosa sono 2000 yen di fronte a un  bisteccone di Kobe e a un bottiglione di sakè mentre vi fate un giro in elicottero sputazzando in testa ai plebei? Avanti, calcolate il vostro tetto massimo e iniziate a ordinare come se non ci fosse un domani!

Congratulazioni ai laureati

Nel giorno dell’equinozio di primavera sono andata a lavorare. O quasi.
Ho deciso di partecipare a un evento organizzato dall’università per cui lavoro, la cerimonia di chiusura dell’anno accademico, e la consegna dei “diplomi” agli studenti che hanno concluso gli studi.

Potevo evitare, già partecipare alla cerimonia di apertura è decisamente noioso, quindi ci ho riflettuto fino all’ultimo momento. Ma alla fine sono andata!

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Shunkan – Attimi (1)

20 novembre 1986, ore 18:45

Tokyo. Stazione Kokutetsu di Akihabara.

Stanco, con la borsa in mano, il salaryman Toru Nakatani, 41 anni, viene spinto fuori dal treno della linea Chuo, quasi travolto dall’esplosione umana che segue l’apertura delle porte. Cammina quasi per inerzia, spinto dagli altri passeggeri e dalla forza dell’abitudine, come tutti i giorni, al rientro dal lavoro.

Il lavoro che fa non ci interessa. Sappiamo che lui deve cambiare treno tre volte per raggiungere casa sua. Non ci interessa dove abita. Ma sappiamo che abita da solo.

Sempre in piedi, appeso alle maniglie del treno. Tutti i giorni, per sempre. Sappiamo che tre anni prima, al municipio, aveva timbrato il modulo per il divorzio consensuale. Ora ricorda soltanto vagamente i lineamenti di Aya, la donna che aveva sposato. I meccanismi della mente ne stavano cancellando il ricordo. Un frammento di vita che stava sbiadendo. Anni scoloriti, come tante vecchie foto.

Camminando verso la lunga scala mobile che, in salita, conduce ai cancelletti d’uscita, Nakatani ricorda. Estate. Agosto. Secondo anno di università. Le zanzare. Una sigaretta accesa. I fuochi d’artificio lungo il fiume Kamo, a Kyoto. La notte. La folla. Lei. Natsumi. L’unica donna che avesse mai amato.

Sale sul primo gradino della scala mobile, e si ferma, appoggiandosi stancamente con il gomito sul corrimano di plastica, lasciando che la scala faccia il resto.

Alza lo sguardo. Erano passati diciassette anni dall’ultima volta che l’aveva vista. In quel momento, i suoi occhi spossati la vedono. Proprio lì, a pochi metri, sulla scala mobile in discesa. Si avvicina. Come se quel ricordo l’avesse evocata. Un fantasma che si era materializzato.

Bellissima.

Come quella sera d’agosto.

Il trucco fine e leggero, i capelli neri, leggermente mossi, un po’ più lunghi di quando era ragazza. Un cappottino marrone, leggero ed elegante. Lo sguardo fisso, la mente forse persa in qualche pensiero. Chissà. Forse anche lei sta pensando a lui, e quel pensiero incrociato aveva realizzato l’assurda coincidenza. Ma no, non poteva essere. Con tutta probabilità, lei pensa ad altro. Alle mille cose che riempiono la sua vita, certo. Anche se né Nakatani né noi lo sapremo mai.

Sappiamo invece per certo che per Nakatani il resto del mondo è sparito. In quell’attimo ci sono solo il nulla, lui, lei, una scala mobile in salita e una in discesa. Lui si è accorto di lei, la fissa incredulo. Ma lei non sembra essersi accorta di lui, la vediamo ancora assorta nei suoi pensieri. Nessuna espressione trapela dal suo viso.

La scala scende. Eccola. Si fa sempre più vicina. Forse è sposata? Forse no? Forse ha figli? Forse no? È felice? Nakatani per un attimo pensa: forse no. E un istante dopo se ne vergogna.

Sono alla stessa altezza. Si incrociano. Nakatani si illude di sentire il profumo di lei, vicinissima, la mano candida sulla cinghia nera del corrimano. Nessun anello.

Forse lei lo sta guardando con la coda dell’occhio. Si è accorta di lui.

O forse no. Lui ha un brivido. Trema. Vorrebbe sorriderle. Vorrebbe allungare la mano sulla sua, chiamarla, urlare il suo nome. Natsumi!

Ma un istante dopo lei ormai si trova dietro di lui, scende, si sta allontanando di nuovo. Il nostro eroe vorrebbe voltarsi per ammirarla un’ultima volta. Ma una forza misteriosa glielo impedisce. La paura di non poter incrociare il suo sguardo? Il rimorso di aver trascorso una lunga parte della sua vita senza di lei? Lei forse non lo aveva visto. O lo aveva visto ma non lo aveva riconosciuto. O forse lo aveva visto e lo aveva riconosciuto. Ma a un certo punto la scala mobile finisce, e Nakatani non se ne accorge.

In quel preciso istante inciampa e cade a terra. Le persone dietro di lui lo schivano, alcuni lo guardano di striscio, con disprezzo, pensandolo ubriaco, e continuando a camminare con indifferenza. Lentamente cerca di ricomporsi, raccoglie la borsa, si aggiusta gli occhiali.

E finalmente trova il coraggio di guardare giù.

Ma non la vede. Sparita.

Quasi come se non fosse mai esistita.

(G. Bertelli – 2016)